di Massimo Zamboni
con Massimo Zamboni, Angela Baraldi e Cristiano Roversi
collaborazione alla regia e alla drammaturgia Mariano Dammacco
Un viaggio di iniziazione nella tumultuosa Berlino del Muro e delle case occupate, dalla strada al palco, dal palco alla strada attraverso il racconto di un percorso esistenziale, quasi che ogni canzone possa dissolversi in un brano teatrale. E’ il 1981, Massimo Zamboni ha 24 anni, e più che scappare dalla provincia emiliana è alla ricerca di un indefinito sé. Berlino, in quella lunga estate, è una città di giovani e di musica, di voglia di futuro, di case occupate: un mix irripetibile di intensità e fragilità. E poi c’è il Muro. Entra in scena sommessamente
, quasi soffocato dalla vitalità dell’esperienza cittadina, per poi impadronirsi dello spazio e del senso rivelandosi come autentico co-protagonista del racconto. Nella girandola di situazioni, tra i giorni a servire ai tavoli di un ristorante italiano e le notti a inseguire il locale più underground, si fa strada la consapevolezza che sia pressoché impossibile uscire dal proprio guscio identitario. Fino a quando un incontro imprevedibile altererà per sempre le coordinate. Da quell’incontro deflagrante nascerà uno dei gruppi ancora oggi più amati del panorama musicale italiano, CCCP Fedeli alla linea.
La riduzione teatrale del libro “Nessuna voce dentro” (Einaudi, maggio 17) Mette in scena quella Berlino grazie alle parole del libro e alle canzoni di un’epoca in cui la musica viveva di piena identificazione con la vita e la storia: Lou Reed, Jim Morrison, Fehlfarben, Nico, Einsturzende Neubauten, Kim Carnes. Perfette colonne sonore per tutti coloro che agli inizi degli anni ’80 andavano a Berlino con la stessa intensità con cui gli eroi di Allen Ginsberg “andavano a Denver, morivano a Denver, ritornavano a Denver e aspettavano invano”. L’uomo è condannato alla storia e la di oggi sente la mancanza di quei suoi eroi perduti. Ma non saranno le lacrime a consegnarci un mondo migliore. Tra le istruzioni impartite da quella Berlino, la parola Tuwat forse è stata la principale. “Fa qualcosa”.
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